INTRODUZIONE

Esprimersi tramite la pittura

Vittorio Barenghi nasce a Boffalora s/Ticino il 15 febbraio 1927 e ben presto manifesta la sua propensione al disegno ed alla pittura che lui stesso definisce il mezzo migliore per comprendere e farsi capire, e, già dalle scuole elementari, era solito fare schizzi e disegni per i compagni, opere che poi regalava agli interessati.
Questa sua abilità pittorica è presto sfruttata da amici e conoscenti così che a Barenghi è richiesto sia di decorare i paracamini delle case private sia di preparare cartoni di sfondo per il presepe natalizio della chiesa e per il teatro dell'oratorio di Boffalora.
I suoi primi lavori si datano già dalla fine degli anni trenta; sono opere giovanili nelle quali si può intravedere, però, la volontà di apprendere e di cimentarsi subito nelle tematiche classiche della pittura (nature morte, busti accademici ed altro).
Il suo coinvolgimento nella pittura e nel disegno è tale che il suo primo lavoro non può essere che quello di disegnatore e solo successivamente dopo il matrimonio, con l'appoggio della moglie, apre uno studio di grafica pubblicitaria.
Pur essendo autodidatta, nel senso più completo della parola, è sensibile alla ricerca artistica e culturale del suo tempo e sembra incredibile che un artista come lui, cresciuto lontano dai clamori propagandistici e dalle mode, riesca con i suoi dipinti ad essere portavoce sensibile ed attento delle esigenze del suo tempo.
Legge libri d’arte e si documenta in continuazione rimanendo affascinato dai movimenti culturali ed artistici suoi contemporanei.
Siamo nel tempo in cui si esaspera, fino alla crisi profonda, la ricerca del mezzo e della forma tramite cui sviluppare l’opera d’arte ed in particolare la pittura, e si assiste all’interminabile susseguirsi di numerose correnti tese alla ricerca dell’espressione o verità più corrispondente al nostro sistema di vita.
Movimenti artistici quali l’impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, il futurismo, il neoplasticismo si susseguono con frenesia inarrestabile fino a portare la ricerca artistica a forme inconsuete ed inusitate, fino al parossismo, e alcuni critici non esitano a definire queste opere o idee degenerate. Queste tendenze o movimenti non sono altro, però, che il sentimento umano espresso in arte che riflette i pensieri, politici e culturali di quel tempo e che si agitano e succedono a ritmo sempre più incalzante.
Così la libertà assoluta, reclamata quasi con veemenza come contrapposizione ai vincoli che in passato hanno condizionato artisti in qualsiasi campo, e che oramai spadroneggia, ha facilitato la scoperta di nuovi linguaggi formando nuove correnti per il conseguimento di risultati fino allora impensati.
Barenghi, però pur rimanendo aggiornato, non osa più di tanto e la sua pittura non si spinge oltre i modi consacrati dagli artisti che lui reputa tra i più grandi: Van Gogh, Modigliani, Gauguin, Ligabue, Picasso, Michelangelo, Caravaggio.
Proprio sul finire degli anni quaranta i suoi quadri incominciano a manifestare una preparazione più impegnativa che porta al conseguimento di un’espressività più marcata.
Questa maturazione d’intenti e di stile continua e raggiunge il suo culmine intorno agli anni cinquanta, come si può notare nel bel quadro del 1952: ”Boffalora, veduta da Villa Giulini”.
Nel 1953 al circolo Zenit di Milano, soffermandosi sul dipinto “La crocerossina” ebbe così ad esprimersi un critico d’arte: “la tumultuosa concezione che genera la sua pittura nell’intento di tradurre in forma esteriore l’intima sofferenza interiore ne fanno una sicura speranza”.
Indubbiamente la parentesi partigiana, che lo vide coinvolto, non ancora sedicenne, come staffetta tra le varie formazioni locali al comando di Giovanni Marcora, ha temprato la sua personalità e segnato profondamente i suoi ricordi.
Ma i ricordi che affiorano nei quadri di Barenghi non sono ossessivi o disperati come potrebbero essere da un semplice punto di vista realistico, essi sono come trasfigurati da quella luce che è ancora un segno caratteristico del suo stile e che non manca mai anche quando vuole celebrare il dolore o lo sconforto.
E’ la luce dell’ambiente in cui è vissuto, le rive del Ticino, il Naviglio Grande, la campagna lombarda.
Tre dipinti del 1957: l'arlecchino, il mangiatore di anguria, e la raffineria di Trecate si possono segnalare tra le sue opere migliori in quanto ad espressività.

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  Continuano, infatti, il percorso di maturità espressiva iniziato con la Crocerossina del 1953, evolvendosi verso forme più incisive.
Nella raffineria di Trecate, inoltre, non è difficile intravedere un tenue influsso sironiano anche se trasfigurato dalla luce caratteristica di Barenghi. E’ interessante notare in questo dipinto, il suo contributo di amore all'ambiente con la rappresentazione di quelle nuvole nerastre, create con un solo colpo di pennello, che si stagliano sul blu del cielo come triste presagio di un futuro nel quale la vita dell'uomo dovrà fare i conti con l'inquinamento.
Singolare ed assai indicativo è ricordare la genesi delle sue opere; non nasce, infatti, alcun suo dipinto che non sia concepito precedentemente nella sua interezza: si racconta che fosse solito rimanere assorto e pensoso, quasi estraniandosi, davanti alla tela bianca sul cavalletto, per molto tempo, fino a che non avesse ben in mente quello che voleva fare; poi iniziava a dipingere, finendo di getto tutta l’opera in breve tempo.
Barenghi non fa parte di quell’innumerevole schiera di pittori dilettanti che si sono dedicati all’arte del cavalletto per hobby o semplicemente per moda; egli pur vedendo gli artisti suoi contemporanei e comprendendone le aspirazioni e gli intenti, rimane estraneo al contagio imitativo che ha caratterizzato molti nostri pittori di quel tempo; nei suoi quadri la sensibilità, per la natura ed i suoi colori, è l’espressione immediata del suo modo di vivere e di pensare, rispettoso dell’ambiente ed immerso in quella luce che diviene protagonista assoluta delle sue opere.
Il suo spirito d’osservazione e il suo appassionato amore per la natura permeano il timido realismo impressionista delle sue opere che diventano alla fine, emblematicamente, inno alla gioia di vivere.
Sono, infatti, i luoghi della sua vita, spensierata anche nei momenti più difficili, l’ambiente in cui è vissuto con particolare riguardo per il Ticino ed il suo Naviglio, la sua gioventù trascorsa a Boffalora, il suo passato come convinto partigiano pronto ad offrire la sua vita in cambio della libertà altrui e della patria, a caratterizzare tutte le sue opere.
La morte prematura giunge nel 1986 stroncando una speranza nel nostro campo
artistico.

L.C. (contributo scritto nel Gennaio 2007)